1 maggio 2024

Quale fede?

Perché a me? Perché Dio sta permettendo questo? Sono due interrogativi che in modo personale o in termini generali pongono una questione di fede: se non capisco il perché del mio dolore e in generale la sofferenza dell’uomo come posso credere in Dio? Se non capisco Dio, il suo volere, il suo agire, come posso fidarmi e credere in Lui? La risposta a questi interrogativi svela la natura che si attribuisce alla relazione con Dio. Mi viene in mente il primo comandamento “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro dio fuori di me”. Così come viene presentato Dio fin dai primi anni di catechismo, la natura della relazione ha un carattere formale: si dà grande importanza al rispetto delle regole (dei comandamenti), alle pratiche (preghiere e riti), ai formalismi (è lecito/non è lecito), al senso del dovere (mi devo sforzare a…) con l’idea che, nella relazione, la parte più difficile spetta a noi che dobbiamo camminare in salita e migliorarci, rialzarci dalle cadute, magari camminare più svelti per stare al passo con gli altri. Il metro di giudizio di questo modo di credere è lo sforzo che si compie (ho rinunciato a, ho dedicato la vita per, mi sono sacrificato in nome di) e il premio che ci si attende, consegnato direttamente dalle mani del Padreterno, è la salvezza. C’è poco o nulla da capire: si tratta di imparare a memoria e praticare; e alla domanda «Perché credi?», la risposta potrebbe essere perché sono mi hanno battezzato, perché mi è stato insegnato, perché potrei finire all’inferno… Poi però ci sono i fallimenti, le perdite, il dolore, le malattie e i problemi della vita ordinaria, quella vera di tutti i giorni, e un altro interrogativo si fa strada: a cosa serve credere in Dio se poi siamo soli ad affrontare la vita? Il bisogno di avere delle risposte valide, il desiderio di cambiare e l’apertura a nuove soluzioni squarciano la corazza delle certezze.

Incontrare qualcuno a cui brillano gli occhi quando parla di Dio, nonostante nella sua vita stia lottando contro un male incurabile, sentirsi riconosciuti dagli altri nonostante noi ci vediamo falliti, ricevere l’amore di un amico o del coniuge anche quando abbiamo sbagliato fanno cambiare tutto. Questi eventi “casuali” diventano delle micce accese che possono innescare il cambiamento. Lo Spirito di Dio, da sempre presente nell’esistenza umana, si fa strada nell’anima e piano piano comincia ad abitarla. Quel Dio lontano e irraggiungibile lo si scopre al proprio fianco sul fondo dell’abisso, tanto che il proprio dolore è inciso sulla sua carne. Egli mi è così vicino da essere nella parte più profonda della mia umanità e non sta a guardare, ma soffre e palpita con me. Questo cambio di prospettiva trasforma la relazione in personale e intima; e, come per i discepoli di Emmaus, ciò che conoscevo inizio a sperimentarlo e ciò che prima era solo regola, comandamento, ora acquista un sapore che da corpo al sapere. Dio si fa prossimo, amico, marito, figlio, presente nell’amore umano e i gesti concreti si trasfigurano diventando manifestazione della presenza divina.

La fede allora diventa una questione di esperienza e gli schemi preconfezionati non bastano più. Si può capire l’amore solo vivendolo all’interno di una relazione che lo definisce e gli da sostanza; si può capire Dio solamente facendone esperienza, attraverso la nostra umanità e all’interno della nostra vita; e alla domanda «Perché credi?», la risposta diventa «Non potrei farne a meno, Lui ha creduto in me per primo».

                                                                                    Michele Bortignon

Ascolta il testo



14 aprile 2024

Gli Etruschi e la morte

Curioso: quando ci si muove per l’Italia tra chiese e musei, le opere d’arte a tema religioso ci parlano insistentemente, ossessivamente della morte. Dipinti che raffigurano le più atroci torture dei nostri irraggiungibili santi o che immaginano un al di là che, sì, è tutto nuvole e voli per i buoni, ma è inquietante per chi (e chi non ci si ritrova?) non è stato alle regole.

Quanta parte abbiamo avuto noi cristiani nel costruire un immaginario terrifico attorno alla morte, questa dimensione così umana, di cui però nulla possiamo sapere e che il nostro credo riveste di speranza?! Me lo chiedevo osservando con interesse i sarcofagi delle tombe etrusche, così diversi da quelli dei nobili tumulati in certe chiese o da certe tombe monumentali dei nostri cimiteri. Qui tutto è dolore, pianto, solennità, nella raffigurazione di una fine che così poco suggerisce la speranza di una risurrezione.

Il defunto etrusco invece, sopra alla cassa in pietra o in cotto, viene raffigurato sdraiato sul suo triclinio, nella posa che egli assumeva in uno dei momenti più gioiosi della sua vita: il simposio. Che cos’è un simposio? È la parte finale del pranzo conviviale, in cui ci si rilassa sorseggiando una coppa di vino, ascoltando musica, conversando amabilmente con gli amici o i parenti. E, all’interno della grande tomba familiare, sui loro sarcofagi rivolti gli uni verso gli altri i defunti potevano continuare per l’eternità a intrattenersi vicendevolmente.

Quello che rappresentiamo in terra trova il suo compimento in cielo: questo credevano gli antichi. Ed ecco allora che la loro speranza, il loro “paradiso”, era appunto quella di vivere per sempre quel che più piacevolmente facevano in vita: stare assieme alle persone care, intrattenendosi su ciò che rende significativa la vita (ricordiamo, ad esempio, proprio il “Simposio” di Platone), gustando il piacere del cibo, del vino, della musica, del pensare con saggezza, della buona compagnia.

E questa speranza non diventa forse un invito a cercare di vivere il più intensamente possibile questi momenti, così da renderli già qui e ora il paradiso in cui vivere per sempre?

Questa speranza di una continuità veniva sostanziata dal provvedere al defunto le suppellettili necessarie ad allestire il suo convivio ultraterreno: piatti, coppe, orci; e sulle pareti delle tombe (possiamo vederli nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia) i dipinti ricreavano lo sfondo del simposio, a renderlo vivo, immortalando l’attimo in un presente eterno.

Non è interessante notare che in ogni tempo l’uomo cerca un modo per superare la tragedia della morte e arrivare alla felicità? E guardare a cosa fanno gli altri ci apre la mente, arricchendo di stimoli il nostro modo di pensare e… di credere.

                                                                                                          Michele Bortignon

1 aprile 2024

Da dove nascono i problemi

 

Le forti reazioni che si scatenano in te in certe situazioni rivelano la tua angoscia di perdere o di non riuscire ad ottenere qualcosa che soddisfa un bisogno fondamentale di cui nel passato hai subito dolorosamente la deprivazione.

Possiamo pensare, come esempio, a un conflitto personale sul modo di gestire una certa attività, nello svolgimento della quale sei è particolarmente stimato, proprio tu che un tempo ti sentivi considerato una frana; oppure al distacco imposto dalle tappe della crescita dei figli, dal cui affetto ti eri sentito colmato, proprio tu che non ti eri mai sentito amato fino in fondo.

Questi bisogni negati, che costituiscono il nucleo della tua fragilità, la ferita non ancora rimarginata che sanguina quando toccata, sono essenzialmente tre:

  • la stima: il bisogno di validità personale
  • l’affetto: il bisogno di essere amato e di amare
  • la sicurezza: il bisogno di integrità del tuo essere

La sofferenza che provi in queste situazioni la scarichi poi su te stesso attraverso le somatizzazioni oppure sugli altri mediante un’aggressività che, più o meno controllata, ma comunque evidente dal disagio reciproco, rivendica i tuoi diritti, ritenuti ingiustamente calpestati, e si esprime in quelli che sono stati definiti “peccati capitali”, tipici atteggiamenti di autodifesa (ira, disordini alimentari, disfattismo, invidia, lussuria, avarizia, superbia).

Un’alternativa all’aggressività, a torto ritenuta soluzione cristiana, è l’abnegazione ascetica, quando decidi di accettare, senza reagire, la situazione che ti fa soffrire, ritenendola espressione di un disegno divino.

In fondo l’abnegazione ascetica è un rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro: il “paradiso”, dei meriti con Dio, una certa sensazione di santità, la realizzazione del proprio essere cristiani. C’è molta ricerca di te stesso in questa rinuncia a te stesso: sei tu che rinunci, perché sei capace di rinunciare. E’ un atto di eroismo. Questa ardua sublimazione rischia però più tardi di far scoppiare con violenza il tuo bisogno represso, e con esso un’acrimoniosa delusione nei confronti di Dio, che accusi di non ripagare il sacrificio che gli hai offerto.

Sia nella ribellione rivendicativa che nell’abnegazione ascetica il protagonista sei pur sempre tu, che ti muovi con una logica puramente umana. E questo finché, bene o male, riesci ancora ad avere un qualche controllo della situazione, finché riesci a mantenere un equilibrio che, seppure fragile e malato, regge. E’ forse un bene, a questo punto, se, un litigio più forte degli altri o un crollo psico-fisico fanno collassare questa tua struttura difensiva: se può essere il momento in cui finalmente trovi il coraggio di guardarti in verità e ammettere di aver costruito un sistema di relazioni in cui tanti secondi fini, tesi per l’appunto a soddisfare i tuoi bisogni, sono causa di sofferenza a te stesso e agli altri. Ti vedrai schiavo dei tuoi bisogni, condizionato a comportamenti ripetitivi da cui non riesci a uscire, preda di timori che non hanno riscontro nella realtà ma che pure ti angosciano; se sei impegnato nel bene, scoprirai in esso venature di egoismo, di manipolazione degli altri ai tuoi fini.

Ma è proprio al fondo di questa verità, in cui provi orrore di te stesso, che Dio ti aspetta per rinnovarti la sua fiducia. E’ questo il momento decisivo, in cui puoi porre l’atto che può risollevarti dalla dannazione dello scoraggiamento e portarti alla salvezza della risurrezione: l’alzare lo sguardo per lasciarti accogliere, accarezzare, sollevare dallo sguardo di Dio.

E’ uno spostare il tuo punto d’equilibrio da te stesso a Lui, accettare di passare dalla sicurezza dell’autogestione all’incertezza della fiducia, forte soltanto dell’intuizione di un amore colmo di promesse, di una speranza che si fonda sulla riscoperta di un passato segnato da una vicinanza discreta ma efficace.

E’ l’esperienza di una presenza che colma ogni bisogno, per cui cessa ogni ricerca, ogni affanno, ogni reazione di difesa.

Davanti a Dio ti presenti ora così come sei: la maschera che indossavi si è frantumata in mille pezzi. Provi la strana e inebriante sensazione di essere nudo, ma non te ne vergogni; ti senti libero, leggero, …felice!

Riguardo alla situazione a cui sei attaccato puoi dire di star passando dal “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!” al “Tu, Signore, me l’hai data e io a te la ridono: aiutami a viverla come a te piace”.

Scoprirai allora di esserti reso vittima del meccanismo della proiezione, interpretando come mancanza di stima o di affetto nei tuoi confronti quel che probabilmente è soltanto una pigrizia, un egoismo, una disattenzione dell’altro: l’altro non ti fa male apposta, ma il suo comportamento egocentrato o superficiale scarica sulla vostra relazione effetti negativi, che tu risenti con particolare sofferenza.

Non c’è dunque un problema nella vostra relazione, ma c’è un problema tuo e c’è un problema suo. Ciascuno però può agire solo sul proprio problema. Innanzitutto identificandolo come tale, per poi evitare di scansarlo chiedendo solo all’altro di cambiare.

Vivere questa situazione nello Spirito del Cristo significa dunque guardare in faccia il male che senti e dirgli «Tu sei figlio del mio demonio e vuoi spacciarti per figlio del demonio altrui per fare due morti al prezzo di uno. Ti ucciderò in me. Non per mia capacità, ma per grazia: mi metterò in relazione con Dio così che il suo amore e la sua stima per me si espandano nel mio cuore fino a farti sloggiare».

Porta la lotta dentro te stesso, tra il tuo Dio e il tuo demonio. Non lasciare che trabocchi all’esterno, nella relazione con l’altro, in brontolamenti, pretese, arrabbiature, oppure scoppi in comportamenti compulsivi che fanno male ad entrambi. Continuando ad amare. Continuando a sperare. Continuando ad aver fiducia in Dio. E, in questo clima pacificato, potrai, più tardi, richiamare anche l’altro ad affrontare il proprio problema.

                                                                             Michele Bortignon

Ascolta il testo


1 marzo 2024

Cos'è la preghiera?

Il primo marzo 2024 ha dato avvio a quello che papa Francesco ha proclamato l’anno della preghiera. Facciamo anche noi allora la nostra parte e proviamo a riflettere su quella che è una delle più caratteristiche manifestazioni della vita di fede.

Perché la preghiera? Da cosa nasce?

Parto da una constatazione: per noi è impossibile tenerci dentro le emozioni.

Le emozioni sono una specie di pressione interna che chiede di essere sfogata comunicandosi, per cui subito cerchiamo qualcuno con cui condividerle.

Qualcosa mi rende felice? Non vedo l’ora di dirlo a qualcuno.

Ho ritrovato la serenità? Ho bisogno di condividere il mio grazie per sottolineare la bellezza di questo momento.

Ho paura? Cerco chi possa rassicurarmi e darmi speranza.

Sono smarrito, disorientato, confuso? Chi può darmi un consiglio che mi aiuti a trovare la via d’uscita?

Sono triste? Da qualcuno ho pur bisogno di essere consolato!

Sono arrabbiato? Se non mi sfogo, uccido qualcuno!

Se l’emozione me la tengo dentro, senza sfogarla e recuperare la pace, mi ammalo.

Dover esprimere in parole questa emozione mi obbliga a capire da dove viene, cosa mi sta facendo e dove mi sta portando; e, di conseguenza, posso decidere come voglio viverla.

L’altro, che la accoglie, tanto più mi aiuta quanto più mi lascia parlare, aspettando che, parlando, io mi chiarisca a me stesso; e, quando interviene, lo fa aprendomi orizzonti, appartenenti alla sua esperienza, che io ancora non avevo intravisto.

Fortunato chi ha un amico che può farlo!

Ma ci sono persone che si sono create attorno un deserto, o le relazioni che hanno sono finte, in un teatro in cui ciascuno, per interesse, recita una parte, ma niente è vero. In questa solitudine è facile che da una difficoltà, da una sofferenza nasca la disperazione.

La vicinanza di persone che mi vogliono bene, invece, non solo mi aiuta, ma mi apre a un oltre: oltre a questo bene, sento che c’è un Bene da cui questo deriva. È bello vedermi attorno delle persone buone, che mi fanno stare meglio, ma avverto che questo, se c’è, è un riflesso di una bellezza superiore. Mi sento immerso in un mistero in cui c’è qualcosa di più grande di quanto io possa percepire coi sensi, un mistero le cui manifestazioni (e l’amore di chi mi vuol bene è una di queste) mi rivelano orientato al bene, al mio bene. In questo mistero avverto una Presenza, che chiamo Dio. Dio è la suprema armonia che mi chiama a sé per rendermi sé. E nell’armonia ogni difficoltà, ogni sofferenza diventa parte costruttiva di un tutto che è Bene.

Se, dunque, nella fatica, nella sofferenza guardo a Dio, la speranza apre uno squarcio di cielo da cui iniziano a filtrare luce, calore e significato. E' qui ed è così che nasce la preghiera: mi apro a Dio e a Lui confido e affido le mie emozioni. E Lui mi fa volare al di sopra delle mie difese, delle mie aspettative, dei miei limitati punti di vista, aprendomi a orizzonti inconsueti, dove già altri si sono avventurati prima di me, in cui scopro approdi di infinita saggezza. Preghiera è sfogare l’emozione che mi riempie e sentirla sostituita da quella pace che deriva da un sapermi non più da solo, in un cammino di risignificazione di quanto sto vivendo. La preghiera diventa così non qualcosa che faccio, ma qualcosa che mi succede e a cui do spazio in me.

Questo è quanto posso dirti sulla base della mia esperienza.

Ma vorrei coinvolgerti in questa ricerca. E allora ti chiedo:

  • Quand’è che spontaneamente ti ritrovi a pregare?

  • Quando la pace ti dice che la tua preghiera ha avuto senso, che cosa è stato bello e importante vivere in essa?


                                                                                                            Michele Bortignon

Ascolta il testo

1 febbraio 2024

Assieme...ma come?

Cosa significa, tra noi due, stare assieme?

E poi… davvero voglio stare assieme a te o il mio è un semplice bisogno di qualcuno che riempia la mia solitudine? E... posso chiederti di stare con me ora, quando tu hai voglia di stare sola con te stessa?

E... se entrambi stiamo soli, c’è il pericolo che ci perdiamo?

Se ci perdessimo perché non facciamo qualcosa, significherebbe che non abbiamo costruito famiglia, ossia una storia che ci fa sentire parte di qualcosa di più grande di noi, di cui entrambi facciamo indissolubilmente parte.

E allora c’è da continuare a costruire storia. Magari diversa da quella che è stata finora.

Magari con una maggiore unità costruita da una maggiore indipendenza. Perché siamo più uniti quando ci aiutiamo l’un l’altra a stare bene con noi stessi. Nel modo in cui ciascuno sente di stare bene con se stesso.

Questa è la sfida più grande, perché ciascuno tende a vedere come bene per l’altro ciò che sente bene per se stesso; e cerca ragioni per confermarsi nella sua idea e dimostrare all’altro di avere ragione. Ma quando fossimo uguali, cos’avrei risolto? Non avremmo entrambi perso l’occasione per stimolarci reciprocamente con lo scandalo della diversità? Siamo così sicuri di essere nel giusto che nemmeno ci sfiora l’idea di provare a capire le ragioni dell’altro, dando loro il tempo di mostrare la loro validità al maturare dei frutti, ma subito le condanniamo, resi diffidenti dalla loro distanza dal nostro sistema di pensiero.

Questo è un importante passaggio di maturazione: dal camminare l’uno a fianco dell’altra, guardando nella stessa direzione, al saper “stare” l’uno di fronte all’altra, guardando alle sue spalle quel che lui/lei non sa vedere; non un aiuto per, ma un aiuto contro.

Intanto comincio io, lasciandomi dire e meditando in silenzio nel mio cuore, senza reagire difendendomi o contrattaccando.

Forse basta anche solo così. Perché cambiare l’altro se non è lui a cercarlo?

                                                                                                            Michele Bortignon

Ascolta il testo

1 gennaio 2024

Affrancarsi dai bisogni dell'altro

«E’ giusto fare così ed è impensabile fare diversamente». Quando queste parole sono accompagnate da un atteggiamento difensivo, che non accetta di verificarle, o aggressivo, che cerca di imporle agli altri, nascono da paure potenti e quasi sempre inconsce, tese a salvaguardare qualcosa che per te è vitale.

E’ però un modo controproducente: il bisogno puoi soddisfarlo pienamente solo all’interno di una relazione serena, positiva, dove ti prendi cura dell’altro perché lo ami e hai fiducia in lui e da lui ti senti amato e oggetto di fiducia. Strappandogli con la manipolazione o la violenza ciò di cui hai bisogno, otterrai un aborto dell’affetto che cerchi; distruggendoti per essere a misura delle prestazioni che il tuo bisogno di validità esige da te, o, al contrario, evitando di fare per paura di sbagliare, di non essere all’altezza, verrai risucchiato dal “nulla”.

Tutti, nessuno escluso, in misura più o meno grande, ci ritroviamo in una o nell'altra di queste situazioni, creando problemi a noi stessi (salute, insoddisfazioni) e agli altri (attriti, litigi).

Quando finalmente ci rendiamo conto che il problema è nostro, ci proponiamo di uscirne, cerchiamo di farlo, a volte lo facciamo e poi... ci ricadiamo. Ci vuole pazienza con noi stessi: il crescere della consapevolezza derivante dal problematizzare il nostro comportamento ci porterà a una sempre maggiore libertà dalla schiavitù del nostro bisogno.

E, mentre facciamo la nostra parte col nostro problema, cosa fare quando il problema degli altri ci coinvolge, limitando, oltre alla loro, anche la nostra libertà? Kaire: rallegrati! Entra nella fede che con Cristo, vivendolo nel suo Spirito, a tutto puoi dare un senso, volgendolo in crescita verso un bene maggiore per te e per loro.

Come dare un senso? E quale senso? C'è un solo senso che realizza in pienezza il nostro essere uomini: l'amore reciproco (“Amatevi gli uni gli altri”, Gv 13, 34). Ma l'amore ha una imprescindibile condizione d'esistenza: la libertà, che mi permette di donarmi all'altro per quel che sono, non per quel che lui vuole e che vuol costringermi a essere per poter soddisfare il suo bisogno. Ed è proprio quel che tu non vorresti da me che ti è più utile, che è la vera ricchezza che posso darti, perché costituisce una risorsa in più a tua disposizione per capire altri aspetti della vita, altri modi, oltre al tuo, di viverla, utili per quando essa ti si presenterà più difficile di quanto non lo sia ora o, semplicemente, per fare la tua parte quando deciderai di affrontare, rispettandomi, il problema che ci coinvolge dolorosamente entrambi.

Ma cosa significa amare nella libertà?

In primo luogo, lasciarti essere quel che hai deciso di essere. Il bene o il male che ne nasce diranno se si tratta di verità o di illusione. Per ora non posso dirlo io, ma nemmeno tu. Per questo posso aiutarti ad approfondire il tuo punto di vista confrontandolo col mio.

Non meno importante, lasciarmi essere quel che io ho deciso di essere. Assecondarti non è amarti: lasciando che le tue paure influenzino anche i miei comportamenti, confermerei la loro plausibilità. Evitando di dire o di fare quel che sento mi appartiene, ma a te fa male, nasconderei i sintomi di una malattia che richiederebbe ben altra cura e che, aspettando, si aggraverà.

La disunione non nasce dal seguire strade diverse, ma dal rifiutare di riconoscere la dignità di strade diverse dalla propria: questo è negare il valore dell'altro! Solo un rapporto paritario, fatto di reciproca stima e fiducia, può durare nel tempo e venire incontro, in maniera corretta e costruttiva, ai bisogni di ciascuno.

                                                                                     Michele Bortignon


Ascolta il testo

22 dicembre 2023

L'abuso spirituale

Approfitto di un fatto di cronaca per una riflessione che sento importante perché riguarda qualcosa che può succedere a ognuno di noi. In campo religioso, poi, non è infrequente a causa delle relazioni di fiducia che qui si instaurano.

Sto parlando dell’abuso.

A fine mese verrà definitivamente chiuso la comunità delle suore di Loyola, i cui fondatori sono stati riconosciuti colpevoli di abuso spirituale.

Come si arriva a una situazione del genere?

Innanzitutto, cos’è l’abuso? L’abuso si verifica quando uno pensa di possedere, e poter quindi imporre, la verità, anziché cercare di costruirla assieme a chi vuol aiutare.

Quando questa mentalità si insedia in una persona, un po’ alla volta va a giustificarne anche i suoi interessi personali, per cui questa usa gli altri per realizzare i propri progetti, per soddisfare il proprio piacere, per confermare la propria validità.

L’abusatore manipola instillando sensi di colpa e di indegnità, rifacendosi alla virtù dell’obbedienza. Faccio un esempio che conosco bene: «Tu non puoi dare gli Esercizi, perché per dare gli Esercizi bisogna avere le virtù e a te manca quella dell’umiltà perché non sei sottomesso».

Al contrario dell’abusatore, che si dà un sistema di giustificazioni per cui si sente sempre nel giusto, la sensibilità dell’abusato lo porta a pensare di essere lui la causa del disagio che sta provando, dei problemi sorti tra loro, per cui cade nei sensi di colpa. E, poiché nel frattempo si è creato un legame affettivo con l’abusatore, la prospettiva di spezzarlo è estremamente dolorosa.

A identificare gli inizi dell’abuso è un senso di soffocamento, nell’impossibilità di sentire che è bene per me quel che mi viene richiesto; in più, mi sento vittima di sottili ricatti che mi impediscono di muovermi dalla situazione che si è venuta a creare.

Come uscire dall’abuso? L’unica strada sembra essere quella della denuncia intelligente, come suggerisce santa Teresa d’Avila: quando ti sembra che il tuo confessore non riesca a capirti, confrontati anche con un altro, e che il primo sappia che lo stai facendo; in questo modo starà più attento a quello che dice.

Confrontarsi con altre persone… in tal modo posso anche escludere la possibilità che sia io nel torto: perché no? Potrebbe anche essere che mi sto costruendo castelli paranoici su situazioni esigenti ma sane, perché inconsciamente rifiuto di mettermi in discussione.

Invece, se è l’altro a sbagliare, potrò separarmene a ragion veduta e senza sensi di colpa.


                                                                                      Michele Bortignon


1 dicembre 2023

Il sentirsi sbagliati

«Il male agisce in te, ma non fa parte di te». Accanto alla coscienza della misericordia di Dio, per uscire dall’influenza delle forze negative che condizionano il tuo agire è essenziale che tu recuperi il senso della tua “alterità” rispetto ad esse. Certo nascono dalla tua storia e dalla tua attuale vita, ma non fanno parte della tua personalità.

Queste paure, queste angosce che ti rovinano la vita non sono parte del tuo carattere -e quindi ineliminabili-, ma nascono da condizionamenti a cui puoi contrapporti!

La tua ombra è proiettata da te, ma non fa parte di te. Puoi allora assecondare l’azione della luce perché la dissolva. Se invece l’ombra fosse parte di te non potresti combatterla: distruggendola ti distruggeresti. Inoltre il senso della negatività del tuo essere ti renderebbe incapace di scoprire le risorse che hai a disposizione per combattere il male o, se anche le vedessi, le avvertiresti inadeguate e sopraffatte dal male che tu sei.

Poter dire che tu non sei questo male, che questo male non fa parte del tuo essere, ma ne è solo un limite, una catena, una prigione che ti viene imposta dall’esterno, ti ridà l’autostima e la fiducia in te stesso necessarie a costituirti almeno controparte di ciò che ti sta distruggendo, per combatterlo con ciò che Dio ti ha donato in te stesso: qualità, capacità, sensibilità da Lui fatte crescere nel corso della tua storia.

«Non sei nata buona o cattiva, ma all’interno di questa tua storia il tuo cuore, la tua affettività è stata terreno di lotta tra le forze del male e quelle del bene, fra l’azione di situazioni contrastanti:

  • alcune ti hanno ferita negandoti sostanzialmente la possibilità di soddisfare i tuoi bisogni fondamentali (sicurezza fisica, dignità, affetto, stima, ecc.), attraverso persone che ti hanno scaricato addosso le conseguenze delle loro paure e delle loro angosce, facendole entrare anche in te;

  • altre ti hanno fatto crescere costruendo, o ti hanno fatto guarire ricostruendo, questa possibilità attraverso persone che hanno saputo traghettarti nell’amore, nella fiducia, nella speranza che loro stesse stavano vivendo.

In un senso o nell’altro, tutte queste persone ti hanno trasmesso il loro spirito, il loro modo cioè di relazionarsi con la vita, che, malato o sano, influenza ora il tuo modo di agire, portandoti verso l’autodistruzione o la realizzazione personale, verso il tuo personale inferno o verso la vita eterna, la vita cioè vissuta in pienezza.

In quanto a te esterne, le varie forze possono influenzarti, ma non toglierti completamente la libertà morale: una volta riconosciutane dai frutti la negatività, fa’ nuovamente della tua scelta di seguire Cristo il punto di partenza per un cammino di liberazione concreta dai condizionamenti che esse tentano di importi.

                                                                                                               Michele Bortignon


Ascolta il testo




1 novembre 2023

Il linguaggio del corpo

Che cos’è amarti? Avere premure per te come nucleo di relazioni: non ti amo se non amo tutto ciò che tu ami.

Se per amarti ti separo da ciò che ami e ti faccio mia/mio, ti uso per me, come strumento per soddisfare i miei bisogni, questo non è amore.

C’è amore tra universi parzialmente sovrapposti, in cui c’è incontro e distanza. Nell’amore c’è spazio per tanti, perché tutti mi portano e ti portano qualcosa.

Qual è allora la differenza tra una relazione matrimoniale e le altre? La stabilità. Il matrimonio è una relazione stabile, a cui si resta fedeli non perché utile o piacevole, ma perché l’ho scelta e fatta crescere come parte di me.

Il dono che porta la stabilità è il crescere della capacità di rimanere nei problemi finché o li risolvi o cambi tu, senza fuggirne.

Da che cosa viene creata la stabilità? Essenzialmente da una vita familiare: casa, figli, parenti, riconoscimento sociale. I rapporti sessuali sono entrati a far parte delle esigenze della stabilità perché attorno ai figli, che in essi sono concepiti, si crea famiglia; e un genitore non può essere presente in più famiglie. I rapporti sessuali creano, inoltre, coinvolgimento emotivo profondo, desiderio di condivisione di ogni altro aspetto della vita. Sono dunque più tipici della relazione matrimoniale. Diversamente si creerebbe un doloroso “vorrei ma non posso”, un’attrazione verso una totalità che in altri tipi di relazione è impossibile da ottenere.

In che occasioni si parla col corpo? La corporeità crea o esprime emozioni, in vista di un’unione con chi sento prezioso per la mia vita. Dunque:

  • la uso ritualmente per creare unione in un saluto;

  • la uso quando sono io / è l’altro travolto da una forte emozione, che l’essere uniti aiuta a stemperare e ad affrontare;

  • la uso, in un impulso di tenerezza, per celebrare la bellezza del sentirci uniti.

C’è un linguaggio del corpo in cui i gesti possono dunque dire:

  • «ciao, sono contento di vederti»

  • «ti sono vicino»

  • «ti voglio bene»

Ma i gesti possono anche dire «Voglio ricevere da te piacere e dartene»; non nascono, cioè, dalla simpatia, dalla vicinanza, dalla tenerezza, ma dalla pulsione erotica, che, come abbiamo detto, di per sé è orientata a creare famiglia.

Quando allora voglio parlare col corpo, devo chiedermi: cosa voglio dire con i gesti che faccio? Il linguaggio che uso esprime ciò che voglio dire? Voglio davvero e sono in grado di sostenere la prospettiva che quel linguaggio simbolicamente sta creando?

E’ importante discernere, da una parte per non creare situazioni in cui uso chi invece vorrei amare, dall’altra per esprimere compiutamente coi gesti ciò che voglio dire, senza lasciarmi bloccare dal timore che possano dire altro.

Ma la scelta di usare quel determinato linguaggio si può dire corretta solo dopo averne verificato i frutti. Che cosa, dunque, ci dice che stiamo usando correttamente il linguaggio del corpo in quella determinata relazione? Il fatto che questa cresca arricchendo contemporaneamente anche le altre.

Se un gesto d’amore è vero, fa crescere nell’amore chi lo fa, che diventa così più capace d’amore con qualsiasi altra persona. Dove c’è concorrenza, dove una relazione cresce a detrimento di altre, nasce il sospetto che le persone si stiano usando, non amando.

                                                                                    Michele Bortignon

Ascolta il testo

1 ottobre 2023

Quando l’ansia mi travolge

Voglio che sia finita: non sopporto l’idea che se ne andrà. E allora la lascio cadere, la lascio morire. Potevo tenerla ancora, ma la lascio andare. Non voglio però che questa sia la verità”. Nel film “Sette minuti dopo la mezzanotte”, Conor, un bambino di dodici anni la cui mamma è ammalata terminale di tumore, sta raccontando il suo incubo ricorrente al mostro che ogni notte viene a trovarlo. Sente che la mamma sta scivolando in un precipizio e lui cerca di trattenerla afferrandole la mano. Impresa impossibile; e Conor è combattuto tra coraggio e disperazione.

Desideravi che tutto finisse anche se l’avresti persa. Desideravi solo la fine del tuo dolore; lo volevi eppure non lo volevi. Non è importante quel che pensi; la cosa importante è quel che fai. L’unica cosa è dire la verità. Devi affrontare il tuo incubo, le paure che vivi in esso e dire cosa ti fa paura, raccontare la tua storia e dire la tua verità”.

Riportando a noi la vicenda… Che cosa sono le ansie se non degli incubi in pieno giorno? Ti raccontano una storia che tra poco accadrà, dove tu vivrai un disastro; e così ti riempiono di paura. La prima soluzione che ti viene in mente è fuggire. Sì, che tutto sia finito presto e si ritorni alla normalità, alla tranquillità. La tensione di rimanere nel problema è angosciante, assillante, è troppa da sopportare. Piuttosto cedere, lasciar perdere, lasciare che siano gli altri a pensarci, non impegnarsi nella soluzione del problema. Pure Conor non vuole che questa sia la sua verità: le paure mi trascinano ma non voglio che mi vincano.

E allora il mostro (interessante che proprio questa creatura spaventosa sia invece quella che gli si dimostra amica e gli fa percorrere un cammino di maturazione) gli fa vedere che il primo blocco da superare è quello della paura delle paure. Come? Guardandole in faccia, imparando a conoscerle, capendo come funzionano con te. E soprattutto rendendosi conto che è normale, è umano avere paura di fronte a situazioni difficili.

Custodisci la paura. Non lasciarla libera -mormorò. Quando tutto accade veloce, impara a essere lento”. Così Lacroix a Peter, che sta affrontando la sua prima battaglia nel corso della guerra di indipendenza americana, dal romanzo “Manituana” del collettivo Wu Ming.

Se la lasci libera, la tua paura ti trascinerà di qua e di là, dove vuole lei, facendoti fare quel che mai avresti voluto. La paura non si può vincere, ma si può custodire come forza che spinge alla prudenza, alla riflessione, al discernimento. La paura può diventare forza di saggezza. Come? Piantando i piedi quando inizia a trascinarmi. Respiro a fondo, mi fermo in mezzo al turbinio dei pensieri, mi do tempo, tutto il tempo che serve, e decido di pensare. Solo al prossimo passo da fare, non di più. Decido di vivere da adulto responsabile, come vorrei essere: un adulto che decide senza essere condizionato dalle sue paure. Ora le conosco e so dove vogliono portarmi. Ecco: non è là che voglio andare.

L’ansia mi dice di risolvere tutto e subito per sgravarmi dal peso della paura. No: decido di rimanerci da uomo, camminando nell’uragano. Non sono una foglia, sono un uomo.

Ma dopo l’ansia sopraggiunge la disperazione: non c’è via d’uscita, non c’è speranza. E’ così che la penso perché so vedere solo la mia via d’uscita, immagino solo la mia soluzione al problema. Ma forse questo uragano serve proprio per disancorarmi dalla mia soluzione, per rendermi perdente secondo le mie idee e aprirmi a un’idea nuova. Una morte per una risurrezione. Non vinto, non vincitore, ma diverso. E quindi aprirmi alla speranza che, alla fine tutto sarà bene.

Mi hanno aiutato le parole di Lacroix a cambiare prospettiva nei confronti delle mie ansie: normalmente cerco di ridimensionare la situazione e mi dico che ce la farò come ce l’ho sempre fatta; in una parola, cerco di galleggiare tenendo la testa sopra l’acqua per evitare di affogare, in un atteggiamento che ha tanto di rassegnazione, di fatalismo. No: la mia vita è la mia battaglia e voglio combatterla, vivendola da protagonista. Voglio io tenerne in mano le fila, non le mie ansie, non le mie paure. Sono al mondo per farlo. Posso farlo. Voglio farlo.

E il primo passo sarà quello di cambiare strada: non cercando quella tranquillità che è assenza di problemi, ma cercando in Te la Vita, mio Signore.


Voglio gioire di Te,

Signore.

Non della pace

così spesso foriera

di un nulla che annulla.

Di Te voglio gioire!

Primo perché

mi hai messo con Te

esploratore di una via

nei problemi del mondo.

E ancora perché

Ti vedo: ci sei!

Il bello mi parla

e il bene Ti dice.

E quando ti cerco

l’amore ti trova.


                                                                                                      Michele Bortignon

Ascolta il testo





1 settembre 2023

Il dono della presenza reciproca

Il saluto di una popolazione africana del nord-Transvaal rende tangibile la rassicurazione offerta da ciascuno alla solitudine esistenziale dell’altro: chi saluta per primo dice «Sawu bonà» (io ti vedo) e l’altro gli risponde «Sikhana» (io ci sono). Finché tu non mi vedi io non esisto e solo vedendomi mi fai esistere.

Dunque è esperienza comune che cominciamo ad esistere quando siamo nel cuore di qualcuno, quando Qualcuno o qualcuno ci dice “sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo”. Ma anche, all’opposto, io ti vedo può significare: sento che tu ci sei, per me, con me; so che posso contare su di te.

Questo stesso urlo d’angoscia - «Ho paura! Ci sei, per me, con me?» - attraversa sottilmente e silenziosamente ogni richiesta di aiuto spirituale che ti viene rivolta, ma che attraverso di te cerca Dio come interlocutore. «Non temere: io sono con te» è la risposta d’amore di Dio. Una risposta però che diventa tanto più credibile quanto più vibra attraverso di te in una presenza che esprime coinvolgimento, premura, fiducia, speranza. Una presenza fatta anche di gesti e di sguardi, linguaggio immediato del cuore attraverso il corpo, che ad un altro corpo si comunica suscitando sensazioni che subito si traducono in sentimenti. Oltre le parole, per dire ciò che queste sono impotenti ad esprimere: un amore che è dono di sé. Le mie parole ti danno quel che ho, nel gesto ti dono quel che sono. Ma quel che sono, per essere autentico, dev’essere trasparenza, deve lasciarsi attraversare da quel che IO SONO: il mio gesto diventa allora il luogo in cui Dio stesso si comunica. Ci sono io, ma non sono io. Ci sono con tutto me stesso, ma ti trasmetto qualcosa che è oltre me stesso.

                                                                                                              Michele Bortignon


Ascolta il testo

1 agosto 2023

Ma il Signore non era nel vento

 

“Ma il Signore non era nel vento” (1Re 19,11) Questo versetto, tratto dal libro dei Re, narra di come il Signore si sia manifestato ad Elia non attraverso un vento impetuoso, nemmeno nel terremoto o nel fuoco, ma attraverso un mormorio di vento leggero. Mi sono venute in mente queste parole dopo la disastrosa e violenta grandinata di mercoledì 19 luglio che ha devastato la zona dove abito. Oltre ad aver distrutto coltivazioni, orti e giardini, ha sfondato tetti, vetri, auto e pannelli fotovoltaici: nessuna abitazione è stata risparmiata e nessuna auto che non fosse ben riparata si è salvata.

Queste parole della Bibbia hanno assunto un significato diverso dopo l’esperienza di devastazione e distruzione che ho vissuto. Avevo sempre interpretato questo brano pensando che Dio non si manifesta con effetti speciali, rumore o colpi di scena, ma nella quiete e nel silenzio di un vento leggero. Ora ho capito che Dio va cercato dopo la devastazione, dopo la distruzione, dopo il lutto, dopo la malattia ed è proprio in quel leggero e impercettibile silenzio di ricostruzione, di vicinanza, di aiuto che si fa sentire.

Cercalo dopo, cercalo quando ciò che non volevi è successo, cercalo quando ti sembra che tutto sia perduto, ma non aspettarti grandi cose, non aspettarti miracoli: accorgiti semplicemente di quel mormorio di vento leggero. Accorgiti di un aiuto, di un abbraccio, di un “come stai”.

La bella notizia è questa: dopo il disastro che ti capita, fermati un attimo, allontana il senso di catastrofico e sentirai la musica leggera della rinascita. È una musica dentro di te che avrà una forza che non credevi di avere.

MariaRosa Brian

Ascolta testo

1 luglio 2023

Il discernimento delle tentazioni

Perché lottare contro il male? Perché ti vuol distruggere. Cosa significa distruggerti? Impedirti di essere quel che puoi essere, a immagine di Dio: un Amore personificato e personalizzato. Che, grazie a questo, vive nella serenità, nella gioia, nella libertà interiore. E’ questa la VITA.

Occorre allora un discernimento nei confronti delle tue tentazioni. Come? Proviamo a seguire Evagrio Pontico.

Quando qualcosa ti turba, ti agita, ti preoccupa eccessivamente, ti fa male o ti fa arrabbiare, o fa tutto questo alle persone con cui sei in relazione, fa attenzione: è il tuo demone che ti sta attaccando.

Porta allora la tua attenzione alle porte del cuore e osserva cosa succede.

Lascia venire avanti il tuo demone, senza spaventarti: Dio è con te!.

Osserva come agisce:

  • Che cosa ti dice, ossia: con quale pensiero ti turba?

  • Quale sentimento suscita in te per appoggiarlo?

Osserva dove vuol portarti:

  • a quali atteggiamenti, comportamenti, scelte?

Osserva da dove viene. Normalmente, la tentazione ti ripresenta una situazione che hai già dolorosamente vissuto in passato. E allora...

  • Di quali parole sono eco queste parole?

  • Di quali sentimenti sono eco questi sentimenti?

Sta calmo e studialo bene, accuratamente, fino in fondo.

Quando gli hai tolto la maschera, buttagli in faccia quel che hai capito di lui: da dove viene, cosa sta facendo, dove ti vuol portare.

Non sopportando questa umiliazione, sentendosi scoperto, fuggirà.

E così continua a fare le altre volte che si presenterà.

Non occorre che tu sia forte: aggrappati a Gesù e fa’ quel che lo Spirito ti fa capire.

In questo modo, il cambiamento non è qualcosa che sei tu a decidere, a programmare e a realizzare in funzione di quel che hai capito essere bene (sarebbe un approccio moralistico), ma deriva dalla presa di coscienza che, anziché comportarti secondo quanto richiede la situazione che stai vivendo, continui a recitare una farsa, una parte che hai imparato tanto tempo fa per difenderti come potevi da una situazione che ti stava uccidendo, ma che ora non è più adeguata a quanto stai vivendo, anzi, crea più problemi di quanti non ne risolva.

Nell’esaminare i tuoi pensieri, tieni presente che quello che il tuo demone ti dice non è sbagliato, anzi! Ma è indebitamente sottolineato, esagerato, apposta perché tu lo senta una tragedia o una cosa della massima importanza ed urgenza.

E’, invece, semplicemente un problema, a volte da affrontare, più spesso da ridimensionare con misericordia, perché ancora una volta si tratta del riemergere di antiche ferite che suscitano nuovi fantasmi.

Dio ti vuole sereno e responsabile all’interno delle situazioni che vivi, per risolverle con creatività, realismo e pazienza, in vista della felicità tua e degli altri.

                                                                                           Michele Bortignon

Ascolta il testo


1 giugno 2023

La fede nella risurrezione: bivio tra due approcci alla vita


La tentazione, a cui fa cenno Paolo riferendosi ad alcune persone della comunità di Corinto (1 Cor 15), di ritenere la risurrezione non indispensabile per la salvezza, è sempre molto seduttiva, soprattutto al giorno d’oggi, per la nostra mentalità razionalista. Di Cristo si apprezza il suo essere maestro di vita, esempio da imitare, amico che ci ama fino in fondo. Ma questa visione presuppone una sostanziale estraneità di Dio alla storia umana: siamo infatti convinti che la vita dobbiamo gestircela da soli, e di poterla portare a realizzazione se, dopo aver compreso che cosa è bene per noi, anche ispirandoci agli insegnamenti di Gesù, lo mettiamo in pratica con la nostra buona volontà.

L'esperienza ci dice però che da soli non siamo capaci di risorgere da certe situazioni di sofferenza o di fatica che ci uccidono, tutt’al più di rianimarci. La risurrezione è opera dello Spirito su una persona esistenzialmente morta per portarla a una vita strutturalmente diversa dalla precedente. Non si tratta di un miglioramento, seppur sostanziale. E’ un vivere non più auto-gestiti, ma etero-gestiti, come dice di sé San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20). Dio risorge una persona per vivere in lei, per incarnarsi in lei. E questo, lontano dall’annullarla, la fa invece diventare pienamente se stessa, come Lui da sempre l’ha pensata e sognata (cfr. Ger 1, 5): radicalmente libera dai condizionamenti di un io malato.

Se non ci fosse risurrezione, non servirebbe la fede, ma solo buon senso, intelligenza, disponibilità a convenire su ciò che è giusto, valutando la proposta di vita che Cristo ci fa. Sarebbe l'adesione a una filosofia di vita.

Se Dio non è coinvolto nella nostra vita, come si crede quando si afferma che non esiste la risurrezione, viene allora naturale concepire la vita come impresa dell’uomo e non come risposta a una chiamata di Dio da discernere nelle varie situazioni che ci troviamo ad affrontare.

Adamo è il prototipo dell’empio: colui che si costruisce una propria giustizia perché non crede in un Dio coinvolto nella propria storia per farla diventare occasione di salvezza.

Gesù Cristo, invece, è il figlio: colui che nella propria vita, passione, morte e risurrezione ha vissuto l’affidamento radicale al Padre, alla sua volontà discreta nel qui e ora di ogni momento della propria storia.

A noi dunque scegliere quale uomo essere: Adamo o Gesù? Colui che programma il proprio destino o colui che si affida? Colui che affronta la vita come un caso da gestire o colui che la crede un cammino accompagnato dalla provvidenza divina? Colui che usa della propria libertà per difendere la propria vita, secondo ciò che ritiene giusto o sbagliato, o colui che l’utilizza per donarsi più pienamente all’amore accogliendo le mozioni dello Spirito di Dio?

Ma l’esito è scontato: in Adamo si muore, in una solitudine illusa di potenza; in Cristo si riceve la vita: l’esperienza e la prospettiva di un amore illimitato, che supera il confine della morte. La vita vissuta nella fede, qualunque morte si trovi ad affrontare, si apre alla risurrezione.

 

Condividere la gioia di Cristo risorto (EE.SS. n.221) non significa semplicemente gioire per la sua sorte, ma rifare la sua esperienza di risurrezione dalla morte per sperimentare la sua stessa gioia. Risurrezione che, esistenzialmente, è sperimentare che Dio risponde con fedeltà alla mia fede che lo crede capace di darmi la vita in una situazione di morte accolta come incontro con Gesù Cristo, in cui abbandonare nella tomba il mio spirito e nel suo Spirito risorgere.

Quell’allietarmi e gioire intensamente, che Sant’Ignazio fa chiedere come grazia, non è dunque soltanto l’obiettivo e l’esito dell’esperienza di risurrezione, ma l’esplicarsi concreto di un atteggiamento di fede che, nell’esperienza di morte che stiamo sperimentando, lo proclama salvatore, Dio fedele alle sue promesse, “capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11, 19): “Di questo gioisce il mio cuore: perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16, 9-11).

 

Michele Bortignon

ascolta il testo

 

 

 

1 maggio 2023

Situazioni difficili da giudicare….

 

«Solo chi lava i piatti rischia di romperli» diceva mio padre.

Assieme alla libertà, Dio ci ha dato la curiosità di provare alternative al “così fan tutti” per creare la nostra strada personale. E così alle volte ci capita di imboccare vie che ci risulta difficile classificare: giuste o sbagliate? Per alcuni aspetti giuste, per altri sbagliate…

Un approccio non spirituale ci porta a buttarci completamente dall’una o dall’atra parte:

  • spinto dalla vergogna e dai sensi di colpa dico che è tutto sbagliato. Con un pentimento frettoloso ne esco al più presto e non ci penso più;

  • spinto dall’istintualità dico che va bene tutto e trovo le mie giustificazioni per poter continuare come prima.

Perché dico che non è un approccio spirituale? Perché in entrambi i casi non c’è un colloquio con Dio, ma solo con me stesso, nel tentativo di sentirmi a posto.

Sempre questo bisogno ossessivo di sentirsi a posto… Come, quando se ne esce?

Quando, nel peccato, ci confrontiamo con la nostra umanità piena di fragilità senza scandalizzarcene perché la guardiamo con Lui, con un dispiacere colmo di riconoscente affetto per Lui che ci cammina a fianco, aiutandoci a trasformare il nostro peccato in una lezione di vita.

Da parte nostra, consentire alla misericordia di Dio di manifestarsi significa entrare in colloquio con Lui riguardo al nostro peccato. Senza fretta, senza cercare vie d’uscita, senza cercare giustificazioni.

Nella vita spirituale, il peccato non è un problema da risolvere, ma un luogo in cui capire cos’è la vita per imparare a viverla con Cristo, con lo stesso atteggiamento che, nella nostra fragilità, Egli ha avuto con noi.

E poi… chi mi dice che proprio ciò che imparo dai miei sbagli non sia il luogo in cui Dio vuole rivelarsi attraverso di me, fare del bene agli altri attraverso ciò che ho ricavato dalla mia sofferta esperienza? Questa diventa allora proprio il luogo da cui posso trarre quel particolarissimo bene da fare agli altri che è solo mio, che solo io posso fare. Un bene che, allora, è Dio con la vita a farlo attraverso di me e non sono io a deciderlo. Sono così passato dal fare io al permettere che Dio faccia in me e attraverso di me. Così si esce dal moralismo e si entra nella spiritualità.

Sono considerazioni, queste, che vanno bene quando la frittata è già stata fatta. Ora, se il rapporto con Dio è vero e profondo, non possiamo accettare che la sua misericordia diventi una protesi fissa per andare avanti a camminare. E’ bello che Dio ci aiuti a rialzarci, ma non che si sostituisca al nostro impegno personale. Un impegno, però, che, per non diventare doverismo, deve fondarsi su una motivazione che sentiamo dà senso alla nostra vita; una motivazione che, se viene a cadere, cadiamo anche noi come persone.

Questa motivazione la trovo quando ho capito che cosa la vita mi chiama ad essere, che cosa il mio esserci porta alla vita, con che cosa nutro gli altri, su che cosa poggia l’investimento di fiducia con cui gli altri si rivolgono a me. E’, questa, la mia vocazione, il mio ruolo nel qui e ora del mondo. Se i mie comportamenti lo distruggono, mi distruggo. E la gravità dei miei errori dipende da quanto questi incidono su questo mio personalissimo modo di dare il mio contributo alla vita.

Tutto risolto allora? Sappiamo come fare, perché farlo e lo facciamo? Eh… magari! La nostra vita è una continua lotta tra il bene e il male combattuta nella nebbia. Alla lunga, quale dei due prevarrà? Quello a cui avremo dato più da mangiare. Per questo non è tanto nell’imperversare della battaglia, quando siamo travolti da forze più grandi di noi, che possiamo fare qualcosa, ma nel tempo tranquillo, nutrendo il nostro pensiero del Bene che amiamo.

                                                                                       Michele Bortignon

Ascolta il testo


16 aprile 2023

La religiosità primitiva in Sardegna

Questo viaggio in Sardegna che sto facendo si è rivelato un’inaspettata immersione nel mondo della preistoria. In nessun altro posto ho trovato una così completa serie di reperti sull’epoca in cui l’uomo ha cominciato a lasciare testimonianze del suo modo di essere e di pensare. Da quei tempi remoti, la domanda che turba il cuore dell’uomo è sempre la stessa: “E dopo?”. E sulla risposta che gli antichi sardi hanno dato si è concentrato il mio interesse e la mia curiosità. E’ questo, in fondo, l’inizio della religione: il cercare una risposta agli interrogativi che trascendono la capacità umana di dare una risposta.

La prima raffigurazione di questa religiosità, risalente a 4500 anni prima di Cristo, nell’epoca detta “Neolitico medio”, è la dea madre, colei che dà la vita: una donna prosperosa, fianchi larghi e seni abbondanti. Ma non è solo la donna a dare la vita: anche la terra, producendo il cibo di cui l’uomo si nutre, assume questa valenza. Ecco allora che, abbinando le due sorgenti della vita, la risposta all’angoscia della morte è fabbricare una “macchina per la risurrezione”: nel grembo della terra, sempre nella roccia viva, vengono scavate le “domus de janas”, tombe a forma di grembo materno. A imitazione di questo, da una piccolissima porticina di accesso si interna un breve cunicolo che sfocia nella cella dove il cadavere viene inserito in posizione fetale, pronto per essere partorito a una nuova vita.

All’epoca matriarcale del neolitico medio segue, mille anni più tardi, nel neolitico recente, un’epoca patriarcale: la morte è vinta nel ricordo di chi non c’è più. E’ l’epoca delle “perdas fittas”, più comunemente note come “menhir”: il defunto viene ricordato da una stele che lo rappresenta. In alcuni casi (come, ad esempio, a Pranu Mutteddu) si nota una transizione: dietro al menhir c’è la domus de janas.

Più tardi, nell’età del rame (siamo nel 3000 a.c.), i menhir cominciano a essere scolpiti con sembianze umane stilizzate (cfr. museo di Làconi): due grandi sopracciglia e il cuneo del naso ne rappresentano il volto, mentre, dal luogo in cui si immagina la bocca, scende “il rovesciato”: il busto di un uomo con la testa verso il basso e due lunghe braccia ricurve all’indietro a formare un cerchio perfetto, quasi un gabbiano in picchiata; raffigurazione dell’anima che esce dal corpo al momento della morte, duplice presenza di questa persona nella vita presente e nella futura.

Anche Dio in quest’epoca cambia volto: il dio della vita diventa il dio trascendente che abita nei cieli, verso il quale ci si innalza salendo la scalinata della ziqqurrat di monte d’Accoddi e verso il quale si leva il fumo dei sacrifici degli animali immolati sulla grande pietra d’altare posta a lato del tempio.

Passano altri secoli ed eccoci all’età del bronzo medio, 1700 anni prima di Cristo. Inizia a svilupparsi la civiltà nuragica, caratterizzata da una marcata socialità: sorgono villaggi attorno al nuraghe, il castello che li difende. Il santuario assume le forme di un edificio o di un pozzo sacro, dove ogni offerente depone un bronzetto che lo rappresenta, raccomandandosi alla protezione del dio. Anche le sepolture cambiano: anch’esse sono ora collettive. Dietro al grande portale delle “tombe dei giganti”, la camera sepolcrale ospita decine di individui, mentre sul davanti l’esedra si sviluppa in due bracci, raffigurando le corna di un toro, simbolo di forza, di potenza invincibile, al cui interno si compiono i riti funebri. Quasi a dire: come singoli individui moriremo anche, ma come popolo nulla può vincerci. Lo dice anche la statuetta del nuraghe collocata al centro della capanna delle assemblee come simbolo identitario.

Ma nell’800 a.c. anche questa civiltà scompare, vinta o assimilata (non si sa) da quella dei Fenici, quindi dai Punici e infine dai Romani. Ma anche questi passano, travolti dai Saraceni e poi dagli Spagnoli, infine dai Savoia, che lasciano il loro segno distruggendo i boschi dell’isola per costruire le traversine delle ferrovie del regno.

Intanto come trova ancora espressione la religiosità popolare? Ne troviamo una traccia nelle tradizioni apotropaiche che segnano la fine del vecchio anno e la rinascita primaverile. A Mamoiada (ma in modi e con figure analoghe in altri paesi) i Mamuthones, brutti e neri, e che si rendono ancor più spaventosi con il clangore dei campanacci legati attorno al corpo, muovono la loro danza al ritmo e coi passi che vengono loro imposti dagli Issohadores, belli e dai vestiti colorati: è il bene che comunque vince il male, il nuovo che rimpiazza il vecchio, il ciclo delle stagioni che va avanti nonostante tutto.